«La regina senza trono: Amalasunta, figlia indomita di Teodorico il Grande» ha accompagnato piacevolmente un tratto della mia estate.
Ornella Albanese ha saputo rendere con talento i fatti, la cultura, le atmosfere di un’epoca lontana e affascinante. Nello stesso tempo, ha sviluppato con delicatezza la tematica del rapporto di Amalasunta con suo padre Teodorico, il sovrano ostrogoto passato alla storia come “il grande”.
Certi accenti di femminismo ante litteram potrebbero sembrare anacronistici; così come certe pagine d’amore potrebbero non incontrare i gusti di chi – come me – ama poco il genere “romance”. Però l’opera è, nel complesso, un romanzo storico gradevolissimo, che ha il pregio di far rivivere una Ravenna splendida, nel massimo del suo fulgore artistico. E riaccende il desiderio di tornare a visitarli, quei mosaici indimenticabili.
Ecco la pagina in cui la piccola Amalasunta – accompagnata da suo padre - contempla con occhi pieni di stupore il Mausoleo di Galla Placidia…
Ravenna, 503 d.C.
Dovette piegare la testa all’indietro per vedere la sommità dell’edificio. Era ancora piccola e tutto le sembrava incombente.
«Le pietre sono importanti, Amalaswintha.»
Era alto, accanto a lei, e robusto. Sul terreno, l’ombra di suo padre il re si disegnava enorme, rispetto alla sua. Non capitava spesso di stargli così vicino e l’emozione le si impigliò in gola. Spostò lo sguardo sul suo viso, notando le piccole rughe intorno agli occhi, la cicatrice in rilievo sullo zigomo, i capelli color del grano a sfiorargli le spalle. La sua voce aveva un timbro profondo che le dava sicurezza, e una solennità molto regale.
«Guarda come si incastrano alla perfezione e in modo ardito.»
Con gesti tranquilli indicava la chiesa che avevano di fronte, severa e maestosa contro il blu del cielo incendiato del tramonto. «Niente è impossibile alle pietre. Possono costruire strutture temerarie trovando impensabili punti di equilibrio. Saranno loro a parlare di noi a quelli che ci seguiranno.»
Amalaswintha si sforzò di osservarle con gli stessi occhi di suo padre, perché Rugio ripeteva spesso che lo sguardo del re andava più lontano di quello di chiunque altro. […]
Entrarono nel nartece e camminarono vicini per un breve tratto del porticato, poi superarono i tre archi maestosi passando accanto a colonne poggiate su basi di marmo rosso. Suo padre prese dal muro una torcia accesa ed entrarono nel piccolo edificio. Il marrone esterno del cotto non lasciava immaginare l’incanto che avrebbero trovato dentro. Il cielo li sovrastava, e le piccole tessere del mosaico rifulgevano alla luce oscillante della fiamma. Un blu luminoso tempestato di stelle d’oro.
«Come può un cielo di pietra essere più lucente di quello vero?» chiese lei, estatica.
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