23 gennaio 2019

Da dove la vita è perfetta

Il Villaggio Labriola è un quartiere popolare all’estrema periferia della città: casermoni fatiscenti, strade polverose, situazioni di disagio. In questa cornice grigia, la giovanissima Adele rimane incinta. 
Silvia Avallone, nel suo Da dove la vita è perfetta, intesse sapientemente una fitta trama di storie sofferte ed estreme. Pagina dopo pagina sa catturare il lettore: mente, cuore, pancia. Soprattutto, è capace di attraversare senza retorica e con grande delicatezza temi da vertigini: aborto, adozione, fecondazione in vitro, disabilità, adolescenza, conflittualità generazionale, crisi di coppia.
Storie parallele, che solo a tratti – per un poco – sembrano incrociarsi: esistenze al limite, poste di fronte a scelte destinate a cambiare la vita per sempre.


Era troppo stanca. Aveva camminato così tanto, quel giorno. Da sola. Nella città deserta di metà agosto, per strade e piazze che non aveva mai visto. E ogni volta era stata sul punto di fermarsi, salire su un autobus e tornare, ma qualcosa l’aveva spinta a non farlo.
Non poteva togliersi dalla testa che fosse capace di sognare. Quel puntino minuscolo, tra una decina di settimane, avrebbe aperto le palpebre e ascoltato la sua voce. E già adesso, in quel preciso istante, era in grado di sentire lei. Lei, che era la sua casa. 
Senza accorgersene, aveva risalito via Sant’Isaia fino a via Barberia, e l’ombra dei portici l’aveva protetta dall'incandescenza del sole. Aveva incontrato madonne affrescate con i loro bambini sotto le volte dei colonnati, il bassorilievo di un’Annunciazione. A guardarli, si era stupita dei colori vividi di quei palazzi: gialli, rosa, arancioni; la loro bellezza contro l’azzurro del cielo. […]
Adesso il centro storico le sembrava alla sua portata. Come un regno in balia del vuoto. Se lo conquistava piano piano, ammirata. Entrando nel fresco delle chiese. Sedendosi sulle scalinate.
Non lo sapeva, da dove le veniva quella necessità di camminare e camminare. Lo stava cullando, forse. In quella camera nera in fondo alla pancia, lo portava con sé e tentava di rassicurarlo.

09 gennaio 2019

La prima neve

La prima neve è sempre un'emozione. A volte però l'entusiasmo si esaurisce in fretta, se non si è abbastanza attrezzati: il freddo morde la pelle, penetra nelle ossa, e intorpidisce i pensieri.
Nella vita ci sono momenti in cui, per scaldarsi, occorre un amico...



Alcuni giorni dopo scese la prima neve. 
Per Adaora e Tom fu un’esperienza nuova ed entusiasmante: un mattino si svegliarono, scostarono il velo dorato e videro il marciapiede spruzzato di bianco. Fiocchi fitti turbinavano davanti alla finestra.
Quel pomeriggio il ragazzino raggiunse i suoi amici in Frazione San Giovanni. 
Indossava un bellissimo completo da neve azzurro, con pantaloni impermeabili e giubbotto di vera piuma d’oca: glielo aveva regalato Stefano. Per gli Obi si trattava di una benedizione: nel bagaglio che avevano portato dalla Sicilia non c’erano capi adatti ai freddi inverni del nord.
Pipetto e Cecilia coinvolsero Tom nei loro giochi da neve, divertendosi a scivolare giù da un pendio particolarmente ripido; l’innevamento non era ancora sufficiente per utilizzare il bob o lo slittino, ma un sacchetto di plastica sotto il sedere era perfetto alla bisogna.
– Credo di non essermi mai divertito tanto – ammise il ragazzino, dopo l’ennesima discesa a velocità mozzafiato.
Per merenda andarono alla fattoria e mangiarono una spettacolare granita fatta con la neve fresca: la sorella maggiore di Pipetto ne raccolse tre bicchieroni colmi e vi versò abbondante sciroppo d’amarene. 
Nevicò tutto il giorno e anche quello successivo.
Adaora era meno entusiasta: superato lo stupore dei primi istanti, iniziò a sperare che tornasse presto il bel tempo. Non amava il freddo umido che entrava nelle ossa, la neve sporca che rendeva difficile camminare sui marciapiedi, il traffico disordinato che faceva sempre arrivare il bus in ritardo. E poi non era attrezzata come suo figlio: indossava uno sull'altro tutti i capi più caldi che possedeva, ma non bastavano per ripararla adeguatamente dal gelo di quei giorni. Ciò che più la faceva soffrire era il freddo ai piedi: anche indossando i calzettoni più spessi nelle scarpe da ginnastica più pesanti, continuava a percepire una sensazione gelata che le irrigidiva le dita fino a farle male.
Tom osservava, capiva, taceva. Finché un pomeriggio bussò a casa Bonvicino e chiese di Stefano:
– Vorrei restituirti queste – gli disse, porgendogli un sacchetto con due divise della Virtus che il giovane era riuscito a procurargli poco tempo prima.
– Ma no, Tom. Te l’avevo detto: sono tue. Puoi tenerle.
– Grazie. Però preferirei scambiarle con qualcosa di più grande. E più caldo.
– Sei sicuro che non ti vadano più bene? A me sembrano proprio della tua taglia.
– Sì, ma… avrei bisogno di…
Il ragazzino si sentì con le spalle al muro e la voce gli si spense. Abbassò il capo e rimase in silenzio a fissare lo zerbino di casa Bonvicino. I fiocchi continuavano a cadere e gli si posavano sul berretto.
Paola, sopraggiunta pochi istanti prima, si avvicinò al fratello e gli mise una mano sulla spalla:
– Ricordi quel piumino rosso? E i doposci blu?
– Ma sono troppo grandi per lui, gli andranno bene sì e no fra tre o quattro anni…
– Daglieli adesso Ste. Nel frattempo saprà lui che farsene.
Tom sollevò lo sguardo e incontrò quello di Bonnie. Si rese conto che lei aveva capito, ma non si sentì umiliato per questo. Quando ebbe fra le braccia un enorme sacco di capi invernali, si sentì come accarezzato.
Restituì a Stefano le due divise della Virtus, ringraziò sorridendo e si dileguò con il cuore che gli scoppiava per la gratitudine.

[Laura Blandino - Il velo dorato - Piccola Casa Editrice, 2018]

02 gennaio 2019

Romanzi a sorpresa

«Sto per andare in vacanza – ho detto alla bibliotecaria poco prima di Natale – Vorrei un paio di romanzi leggeri ma non banali, avvincenti e nello stesso tempo delicati».
Finora non avevo mai chiesto consigli in biblioteca: sono sempre entrata con le idee già chiare, dirigendomi con piglio deciso verso gli scaffali giusti, o addirittura prenotando in anticipo i libri, e poi passando solo a ritirarli.
Questa volta mi sono concessa il gioco lieve dell’affidarsi, in attesa di qualche possibile sorpresa. E devo dire che non me ne sono pentita.
La bibliotecaria mi ha suggerito Risveglio a Parigi di Margherita Oggero e L'estate più bella della nostra vita di Francesca Barra: due romanzi che mi hanno regalato ore piacevoli in queste lunghe vacanze. Sono storie squisitamente “al femminile”, capaci di scandagliare rapporti di amicizia e relazioni familiari, lasciando parlare i luoghi e muovendosi con destrezza avanti e indietro nel tempo.
Vi regalo l’incipit del secondo, un affresco deciso della Basilicata più profonda.


Le tre sorelle Timpone: Ida, Beatrice, Rossella, stanno. 
Si dice così qui, a Borgo Felice, di chi si siede fuori casa a fine giornata, e aspetta. Qualcosa o niente. Qualcuno o nessuno. Apparentemente senza un motivo. 
In questo paese lucano dove si stringono in alto i tetti variopinti di case e casettine e comignoli, dove si irradiano odori e storie che si diffondono con la velocità della luce e rientrano come spifferi dalle finestre. Da qui, dai suoi confini, nessuno riesce a uscire. Nemmeno chi se ne va per davvero. Non ci riescono le persone che fuggono senza valigia, gli amanti che provano a oltrepassare i confini per amarsi al sicuro da occhi indiscreti, i ragazzi che tentano di raggiungere il loro destino altrove. Dove pensano che li stia aspettando. Per qualche strano artificio, inspiegabile ai più, chiunque provi ad allontanarsi dal paese ne viene nuovamente attratto.
E ogni sera, al crepuscolo, le tre donne si ritrovano in quello che è il baricentro della storia della loro vita: sulle gradinate davanti al civico 8.
Proprio fuori dalla casa della loro infanzia.
I sederi non sono più stretti come quando erano bambine e sporgono goffamente dalle sedie di paglia di riso intrecciata. Sembrano un violino a cui si sono allentate le corde, qui e là vedi spuntare pagliuzze. Sfibrate dall’usura, sfilacciate, fanno tuttavia così parte della storia delle tre donne, che a nessuna di loro è venuto in mente di sostituirle con altre nuove. Magari di plastica. Magari più comode. 
L’irrinunciabile liturgia familiare ha inizio proprio dalle seggioline spinte fuori casa.
È un fenomeno rassicurante, la fedeltà alle abitudini quotidiane.


[Francesca Barra - L’estate più bella della nostra vita]