30 agosto 2022

Patria

Convincente e commovente, Patria di Fernando Aramburu è un romanzo dal respiro ampio, che va ben oltre le vicende narrate. È la storia tormentata di due famiglie che vivono in un villaggio dei Paesi Baschi; vicini di casa, profondamente amici da sempre. Siamo negli anni settanta e ottanta; il terrorismo indipendentistico miete vittime, il fanatismo semina divisione.
Un giorno il padre di una delle due famiglie viene assassinato dall'ETA, in cui milita un figlio dell’altra. Da quel momento nulla è più come prima. L’amicizia va in frantumi, la fragilità umana mostra tutta la sua drammaticità.
Scorrono gli anni, ma il tragico evento rimane per tutti i membri delle due famiglie - e dell’intera loro comunità - come una ferita inguaribile. 
Solo attraverso un’esperienza di perdono - implorato e concesso - la piaga potrebbe iniziare il suo lento, indispensabile processo di cicatrizzazione.
Oggi vi offro una pagina, tratta da uno dei capitoli iniziali. Come vedrete, il linguaggio è semplice, immediato; capace di rendere con straordinaria efficacia – e con una delicata "pietas" – la fragilità dei sentimenti.


Smontò dietro una signora, erano le uniche passeggere. Venerdì, tranquillità, tempo buono. E sull'arcata dell’ingresso lesse: PRESTO SI DIRÀ DI VOI CIÒ CHE SI SUOLE DIRE DI NOI: SONO MORTI! A me non m’impressionano con le frasette funebri. Polvere siderale (lo aveva sentito alla tele), quello siamo, sia che uno respiri sia che ingrassi i cavoli. E anche se detestava quell'odiosa scritta, era incapace di entrare nel cimitero senza fermarsi a leggerla.  […]
La fila delle tombe si allunga in batteria al lato del sentiero. La cosa buona per Bittori è che, siccome il bordo sporge di due palmi da terra, si può sedere senza difficoltà sulla lastra. Certo, se piove, no. E in ogni caso, poiché la pietra di solito è fredda (e c’è la muffa e l’inevitabile sporcizia degli anni), lei porta sempre in borsa un quadrato di plastica ritagliato da un sacchetto del supermercato e un foulard per usarli come cuscino. Ci si siede sopra e racconta al Txato quello che ha da raccontargli. Se vicino c’è gente, gli parla con il pensiero; se non c’è nessuno, come succede di solito, conversa in tono normale.
«Nostra figlia è già a Londra. Lo immagino, diciamo, perché non ha avuto la gentilezza di chiamarmi. A te, ti ha chiamato? A me, no. Siccome alla tele non hanno detto niente di un incidente aereo, do per scontato che quei due saranno arrivati a Londra e staranno dandoci dentro per tentare di salvare il matrimonio». […]
Tre o quattro tombe più su c’era un’aiuola di sabbia, accanto al sentiero asfaltato. E Bittori si soffermò a guardare una coppia di passerotti che ci si era appena posata. Con le ali aperte, gli uccellini facevano un bagno di sabbia.
«L’altra cosa che volevo dirti è che la banda ha deciso di smettere di ammazzare. Non si sa ancora se l’annuncio è serio o se si tratta di un trucco per prendere tempo e riarmarsi. Ammazzino o no, a te cambia poco. E non credere che per me sia molto diverso. Ho un grande bisogno di sapere. L’ho sempre avuto. E non mi fermeranno. Nessuno mi fermerà. Neppure i figli. Ammesso che lo vengano a sapere. Perché io non gli dico niente. Sei l’unico che lo sa. Non mi interrompere. L’unico che sa che ci torno. No, in carcere non ci posso andare. Non so neanche in quale sta il delinquente. Ma loro certamente sono rimasti in paese. E poi mi è venuta la curiosità di vedere in che stato è la nostra casa. Tu, tranquillo, Txato, Txatito, perché Nerea è all'estero e Xabier, come sempre, vive per il suo lavoro. Non se ne accorgeranno».
I passerotti erano scomparsi.

23 agosto 2022

Mi piace, ma non mi basta

Potrebbe essere il sottotitolo del romanzo: «Mi piace, ma non mi basta». 
Perché Nori è fatta così: vive con intensità quasi rabbiosa la sua adolescenza, coglie l'attimo, apprezza il lusso, sa divertirsi, adora essere desiderata. Non le mancano né la bellezza, né la curiosità, né il benessere. Tutto questo le piace, le piace molto. Eppure, non le basta...


La perlinatura era ciò che più mi piaceva, nella mia camera di ragazza. Era stato Bob a fare quel lavoro. O Rob? Facevo fatica a ricordare bene tutti gli uomini con cui mia madre aveva percorso tratti più o meno significativi della sua vita. E poi, tutti sti nomignoli americaneggianti confondevano ancor più le idee.
In ogni caso questo Rob, o Bob, era stato uno di quelli che io avevo apprezzato maggiormente. Per un certo periodo aveva anche vissuto in casa nostra. Avevo dieci o undici anni, all’epoca, e mi ci ero affezionata molto: Bob, o Rob, mi coccolava spesso, mi accompagnava alle feste, mi aiutava a fare i compiti. Anche lui, però, aveva ben presto fatto la stessa fine degli altri.
«Mi piace la mia casa. Mi piacciono i miei amici. Mi piace la mia vita» pensavo, inspirando profondamente il leggero profumo di lavanda che permeava il copriletto; poi, in un impeto di sincerità con me stessa, aggiungevo: «Mi piace, ma non mi basta».

20 agosto 2022

Davide di Gerusalemme

Louis De Wohl è riuscito a rendere con efficacia straordinaria la storia biblica del re Davide. Avvincente come un racconto d'avventura, rigoroso come un romanzo storico, Davide di Gerusalemme narra la vicenda di quell'uomo eccezionale, da semplice pastorello a re d'Israele.
Ne esce il ritratto deciso di una personalità complessa e affascinante: umile pastore e grande guerriero, amante passionale e uomo di preghiera; assetato di vittorie, di donne, di ricchezze, ma soprattutto di Dio. Sullo sfondo, quasi colonna sonora, la musica dei salmi.
Vi offro una pagina tratta dal primo capitolo: il profeta Samuele riconosce nel ragazzo il nuovo re eletto da Dio, e versa l’olio sacro sul suo capo...



«Ecco il ragazzo» disse suo padre. «Questo è Davide, il mio ultimogenito.»
Sembra preoccupato, pensò Davide, chiedendosi come mai. Poi puntò lo sguardo sul santo, e i suoi pensieri si arrestarono di colpo. L’uomo di Rama aveva il volto largo, coperto da un reticolo di rughe e solchi profondi, e sopra il naso corto e schiacciato si arcuavano sopracciglia bianche e folte. E gli occhi… Davide aveva sostenuto senza timore lo sguardo del leone, ma quello incandescente del santo lo costrinse a chinare la testa.
«È lui!» disse il vecchio, con una voce sorprendentemente sonora e profonda. «L’eletto del Signore.» Sollevò una mano incartapecorita e coperta di macchie scure, e puntò il dito su Davide. «Leva i calzari», gli ordinò perentorio. «Che si purifichi» aggiunse poi, rivolto a suo padre.
Iesse gli tese una brocca d’acqua e un telo di lino. Gli tremavano le mani.
Che cos’hanno in mente? Si domandò Davide. E di colpo gli venne da pensare che forse era lui la vittima sacrificale. Il Signore non aveva forse ordinato ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco? Anche se all’ultimo momento aveva accettato di sostituirgli un ariete. Forse questa volta non si sarebbe accontentato, e il vecchio gli avrebbe tagliato la gola con il coltello cerimoniale. Davide poteva scappare, ovviamente. Nessuno dei suoi fratelli gli teneva testa nella corsa, e di certo il vecchio non poteva raggiungerlo. Ma se era la volontà di Dio? Lo sapevano tutti che il santo di Rama era un  profeta. E nessuno può sfuggire a Dio. Il Signore è ovunque, e spetta a Lui decidere l’ora della tua morte.
In silenzio Davide eseguì le abluzioni rituali. Il vecchio cominciò a frugare sotto la fascia che gli cingeva i fianchi, ma invece del coltello con la grossa lama ne estrasse un piccolo corno. Tolse con cura il tappo d’argento, e nell’aria si diffuse un aroma denso e dolciastro. Poi il vecchio sollevò la testa, tanto che la sua barba bianca puntò verso il cielo, e recitò una preghiera tra sé. Infine disse: «Avvicinati, Davide, figlio di Iesse.»
Il ragazzo obbedì.
«China la testa.»
L’olio sacro, pensò Davide, sbalordito, sentendo il liquido viscoso che gli gocciolava sui capelli. Impossibile. Di sicuro era soltanto un sogno. Tra un po’ si sarebbe svegliato e avrebbe scoperto che al gregge mancavano un paio di pecore, come la settimana prima, oppure che una fiera selvatica aveva fatto irruzione e… No, non stava sognando. L’olio gli era colato negli occhi e bruciava come il fuoco. Era sveglio, dunque. Tutt’intorno però regnava un silenzio di morte.
Il profeta tappò di nuovo l’ampolla e la ripose con cura sotto la fascia ricamata. «Ciò è bene» disse, in tono solenne. «Al resto penserà il Signore.»

14 agosto 2022

Ebbra di vita

Così era Nori, nell'effervescenza dei suoi diciassette anni: ebbra di vita.
Ma...

03 agosto 2022

La donna dal kimono bianco

In La donna dal kimono bianco di Ana Johns due storie di donne scorrono parallele, su piani temporali diversi, ma alla fine si intrecciano, con un esito di composta drammaticità. 

Stati Uniti, oggi. La giovane Tori Kovac, reporter investigativa, si prende cura del padre morente. Fra gli effetti personali del genitore trova una lettera che potrebbe contenere una rivelazione sconvolgente sul suo passato. 

Giappone, 1956. La giovanissima Naoko è promessa sposa a un giovane che suo padre ha scelto per lei. Ma non vuole questo matrimonio: lei è innamorata di un marinaio americano di stanza presso il porto della sua cittadina.

No, non è un romanzetto rosa. È un affresco storico riuscitissimo, che sa ricostruire efficacemente le atmosfere di un Giappone ormai perduto.

«...Segnai il luogo sulla carta, poi indietreggiai leggermente e rimasi a fissarla incantata perché, come Dorothy, ero stata sbalzata in un altro mondo. Un mondo familiare. Un mondo cui mio padre apparteneva. Per la prima volta da quando avevo letto quella lettera, provai di nuovo un senso di armonia. Attraverso le sue storie, papà, l’uomo che conoscevo, era tornato, e osservando quella mappa, lo vedevo ovunque...»