30 gennaio 2016

Non li lasciate, i ragazzi...


Siete mai tornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare? Con questa domanda si apriva Ricordi di Scuola, il libro in cui il giornalista Giovanni Mosca (1908 - 1983) raccolse le sue memorie d’insegnante elementare.

Collega di Giovannino Guareschi al “Bertoldo” e al “Candido”, Mosca fu anche narratore, disegnatore, umorista. Diresse il “Corrierino dei piccoli” (che i nostri nonni sicuramente ricordano) e fu redattore al “Corriere della Sera”.

Nonostante la sua vita movimentata e la sua interessante carriera, Mosca non scordò mai gli anni in cui, giovane maestro, aveva insegnato nella stessa scuola elementare in cui era stato scolaro.

Rileggiamo insieme il racconto delle sue sensazioni…



 

Siete mai tornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare?

Io sì, la rividi, l’altr’anno, dopo tanto tempo, la scuola dov’ero stato prima alunno, e poi insegnante: la bibliotechina, il salone, i maestri…

La bibliotechina sempre la stessa, con gli stessi libri ricoperti di carta canepina, e il titolo e l’autore scritti in bella callegrafia. […]

E rividi il salone, il grande immenso salone, dove il giovedì, da scolaro, andavo cogli altri a cantare “Fratelli d’Italia”. So come cantano i ragazzi: solo quelli delle prime file cantano veramente; gli altri aprono semplicemente le bocche, senza cantare, e se il maestro, sospettoso, li guarda, gli piantano in faccia, senza turbarsi, due occhi buoni e leali che sembra dicano:

“Come! Non credi ch’io canti? Non vedi che apro la bocca come tutti gli altri?”.

Ma com’era divenuto piccolo, rivedendolo, il grande, immenso salone! E come brutti, miseri, i meravigliosi dipinti del soffitto e delle pareti!

Come mai?

Forse perché da bambini tutto sembra più grande, più bello; ma anche da maestro, fino a pochi anni prima, il salone m’era ancora parso immenso, e i dipinti meravigliosi, e il lume pendente dal soffitto più splendido di quello di un teatro…

Come mai, adesso che non ero più né scolaro né insegnante, tutte queste cose mi sembravano, piccole, brutte, misere, e mi davano una stretta al cuore?

Oh, avrei voluto dirlo ai maestri che mi vennero incontro, guardandomi con invidia, e:

«Ci hai lasciati», mi dissero. «Una carriera brillante, la tua. Guadagni molto?».

Dilatavano gli occhi al pensiero dei miei guadagni favolosi.

«Noi sempre qui, tutti gli anni, tutti i giorni, sempre gli stessi ragazzi, anche se cambiano le facce e i cognomi…»

Avrei voluto dirlo ai maestri che m’invidiavano per la mia brillante carriera libera:

“Non li lasciate, i ragazzi: finché si vive in mezzo ai ragazzi si è ancora un po’ come loro, e le piccole stanze sembrano saloni, e quattro pupazzi sul muro sembrano dipinti meravigliosi: e si crede, vivendo, con essi, a tante cose cui, allontanandosene, non si crede più…”. […]

«Noi sempre qui, tutti gli anni, tutti i giorni, sempre gli stessi ragazzi, anche se cambiano le facce e i cognomi…».

Non sapevano, non capivano, ch’ero tornato appunto per rivedere i ragazzi, per rivederli entrare, la mattina, composti, lavati, pettinati, e uscire, a mezzogiorno, neri d’inchiostro le mani e la faccia, il fiocco della cravatta dietro la schiena, dandosi cartellate sulla testa; che ero tronato per rivedere il corridoio, lunghissimo, con tante classi da una parte e dall’altra, e passando, si sentiva la voce di una maestra di prima:

«I cavalli hanno quindici gambe?»

«No», si sentivano rispondere in coro gli scolaretti.

«Ne hanno forse dodici?».

«Nemmeno».

E, calando sempre il numero delle gambe, arrivava finalmente al numero vero.

«Ne hanno quattro?».

«No!», rispondevano con entusiasmo gli scolari.

E allora, se avessi messo l’orecchio alla porta, avrei sentito il singhiozzo della maestra, di quella povera maestrina di prima, che, fiduciosa del suo metodo, s’era finalmente accorta di non essere riuscita ad altro che a generare una spaventevole confusione nella mente dei suoi scolari nei riguardi del numero delle gambe dei cavalli…

 

27 gennaio 2016

Vivendo e quasi vivendo


L’altro giorno mi è capitato fra le mani Assassinio nella cattedrale di Thomas Stearns Eliot. Sono andata a cercare immediatamente una pagina di drammatica intensità, che amo da sempre: il coro delle donne di Canterbury.

È così opaca questa esistenza senza significato, “vivendo e quasi vivendo”, lasciandosi andare allo scorrere lento di un' apparente tranquillità, impaurite dalle loro stesse paure...

Solo dopo il martirio di Tommaso Becket, qualcosa in loro comincerà a cambiare... e anche la semplice quotidianità si colorerà di significato.

 



Noi non vogliamo che accada nient'altro. Siamo vissute in pace per sette anni, siamo riuscite a non farci notare, vivendo e quasi vivendo. Abbiamo visto l'oppressione e lo sfarzo, abbiamo visto povertà e licenza, abbiamo visto meschine ingiustizie. Ma siamo riuscite a vivere vivendo e quasi vivendo.
A volte il frumento ci manca, a volte il raccolto è propizio, un anno è un anno di pioggia, un altro è un anno di siccità, un anno ci sono mele abbondanti, un altr'anno le prugne sono scarse. Eppure siamo riuscite a vivere, vivendo e quasi vivendo.
Abbiamo onorato le feste, ascoltato la messa, abbiamo fatto fermentare il sidro e la birra, abbiamo raccolto la legna all'apparire dell'inverno, ci siamo attardate a parlare all'angolo del focolare, a parlare all'angolo delle strade, a parlare non sempre a bassa voce, vivendo e quasi vivendo...
Tutte abbiamo avuto terrori privati, ombre personali, paure segrete. Ma ora una grande paura è sopra di noi, una paura non di una, ma di molti, una paura simile alla nascita e alla morte, esse sole e nient'altro, come isolate nel vuoto.
Siamo invase dalla paura che non possiamo conoscere, che non possiamo affrontare, che nessuno può capire. E ci strappano il cuore, ci sbucciano il cervello a strati, come una cipolla, ci sentiamo perdute, perdute in un terrore totale, che nessuno può capire...

23 gennaio 2016

Tre fili di frumento


Una pagina struggente e intensa, tratta da Il compagno don Camillo, di Giovannino Guareschi.
Indimenticabile.


 

 «Questa è la strada, là è la carrareccia, questa è la siepe lungo il fosso e là è la quercia». Ripercorse, seguito dal compagno Tavan, il fosso ghiacciato e risalì la sponda ai piedi della grande quercia. «Ecco,» spiegò indicando il campo di tenero grano «qui è sepolto tuo fratello. » Risollevò la cortina d'edera e mostrò la croce e la data e la parola incisa sulla corteccia.

 Il compagno Tavan guardava il campo di grano e la mano che stringeva il lumino tremava. Don Camillo avanzò qualche passo nel campo di grano e, chinatosi, fece un buco nella terra. L'altro comprese e raggiuntolo, mise il lumino nel buco e lo accese. Rialzatosi, rimase a contemplarlo, col berretto in mano.


Don Camillo cavò di tasca il suo coltellino e tagliò fuori dalla terra bruna una zolla con tre tenere piantine di frumento.
Aveva in tasca il bicchierino di alluminio che gli serviva da Calice: «Ne troverò un altro» pensò mentre lo riempiva con la zolla di terra. «Portalo a casa a tua madre» disse al compagno Tavan mentre gli metteva in mano il bicchiere.

 Tornarono al margine del campo sotto la quercia. «Segnati pure, compagno» disse don Camillo al compagno Tavan. «Mi segno anch'io.» Si segnarono: e nella sua nicchia, difesa dal vento, la fiammella del lumino palpitava. Un colpo di clacson li riportò sulla strada del ritorno.

 Poco prima di raggiungere il torpedone, don Camillo si fermò: «Compagno» disse con voce grave: «tua madre sarà contenta ma il Partito non potrebbe mai approvare cio che abbiamo fatto». «Non me ne frega niente» rispose con voce sicura il compagno Tavan. E maneggiava il bicchierino contenente la zolla e le piantine di frumento, con infinita delicatezza, come se avesse, tra le grosse dita, qualcosa di tenero e di vivo.

19 gennaio 2016

All'ultimo momento


Da Il cavallo rosso di Eugenio Corti: una splendida pagina piena di umanità, di poesia, di eroismo, di dolore.
La dedico a chi apprezza i romanzi storici.
A chi si lascia avvincere dalle storie epiche.
A chi non si limita ai best seller di gran moda.
 

 

[…] Sforzandosi di reprimere la propria orribile agitazione, Stefano si protese sul terrapieno per prendere di mira qualcuna di quelle invisibili ombre che avevano ucciso il suo compagno di squadra. Ma non poté sparare: un urto, come un pugno in pieno petto, gli tolse ogni possibilità d'agire ancora, di compiere un qualsiasi ulteriore sforzo: si afflosciò con lentezza dietro il terrapieno. “M'hanno colpito al cuore” pensò. Tutt'intorno il combattimento che l'aveva impegnato fino allora continuava, ma egli ormai non ci aveva più a che fare: altre cose, diverse e accavallantisi, estenuavano i suoi ultimi istanti: quella fitta implacabile che sembrava al cuore, il terrore, più che della morte, del mistero che la seguiva, e il pensiero di sua madre. Ma soprattutto il dolore… questo insopportabile dolore al petto: “Ahi…ahi…”

Giovannino faccia-infarinata si voltò verso di lui e annunciò livido: “Ho finite le munizioni”, quindi inastò la baionetta; ma Stefano non lo udì, si lamentava adagio: “Ahi…ahi” Faccia-infarinata vide il guanto che il giovane si premeva al petto rosso di sangue, udì il lamento. Stefano giaceva come ammucchiato contro lo spalto: l'altro, deposto per un istante il moschetto, si piegò su di lui e lo tirò supino; il dolore nel petto di Stefano diminuì un poco, cessò il suo lamento; egli tuttavia non apriva gli occhi. Li aveva fissi su sua madre, seduta lì, nella cucina di casa, al solito posto: la mamma dalla sedia lo guardava, lo guardava, con occhi spalancati. Stefano l'invitava: “Parlate, dai, dite qualche cosa voi, che io, con questa fitta al cuore, non posso parlare… e non c'è più tempo, mamma, non c'è più tempo.” La figura della madre fluttuava, fino a diventare indistinta, si dissipava: “Mamma! Mamma!” urlò Stefano.

“Anche questo” pensò Faccia-infarinata; “anche lui! All'ultimo momento chiamano tutti la mamma!”. Si chinò nuovamente su Stefano, che stavolta aprì gli occhi e vide quella larva di faccia imminente. “Il Giovannino di Nomana…” pensò, come in una nebbia; poi: “No, no…” si disse: “è… è la faccia della morte!” e compiendo un supremo sforzo alzò entrambe le braccia per respingerla. La sua anima abbandonò il corpo. Come quando bambino, nel cortile della Nomanella, poggiati per gioco mani e ventre su una stanga del carro Stefano spingeva le gambe in alto e la testa in giù per vedere il mondo capovolto, così ora intorno a lui si produsse un grande capovolgimento. […]

14 gennaio 2016

Io me la cavo sempre!


Questa sera mi sento ragazzina. Quindi, ho scelto per voi la prima pagina di un'indimenticabile opera che ha accompagnato tutta la mia infanzia: Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. 


C'era, alla periferia della minuscola città, un vecchio giardino in rovina; nel giardino c'era una vecchia casa, e nella casa abitava Pippi Calzelunghe. Aveva nove anni e se ne stava lì sola soletta: non aveva né mamma né papà, e in fin dei conti questo non era poi così terribile se si pensa che così nessuno poteva dirle di andare a dormire o propinarle l'olio di fegato di merluzzo quando invece lei avrebbe desiderato delle caramelle.

C'era stato, veramente, un tempo in cui Pippi aveva un papà al quale voleva un mondo di bene, e naturalmente anche una mamma; ma erano passati tanti anni che di lei non riusciva a ricordarsi. La mamma infatti era morta quando Pippi era una bimba piccina piccina, che stava nella culla e strillava in maniera così raccapricciante che nessuno resisteva a rimanerle vicino. Pippi era convinta che la sua mamma se ne stesse ora seduta in cielo e guardasse la sua bambina col cannocchiale attraverso un piccolo foro, così Pippi aveva preso l'abitudine di fare un cenno di saluto verso l'alto dicendo:"Non stare in pensiero per me! Io me la cavo sempre!"

Ma suo padre, Pippi non se l'era scordato. Era capitano di marina e navigava per il vasto mare; Pippi era sempre stata con lui sulla sua nave, finché un giorno, durante un temporale, lui era volato via ed era scomparso. Pippi però era sicurissima che sarebbe ritornato: il pensiero che potesse essere annegato non la sfiorava nemmeno. Era invece convinta che le onde lo avessero sospinto a terra, e precisamente in un'isola popolata di negri. Lì suo padre era diventato il loro re e per tutto il giorno camminava su e giù con una corona d'oro sulla testa.

"Un angelo per mamma e un re di una tribù negra per papà: non capita davvero a tutti i bambini di avere dei genitori tanto distinti!" diceva Pippi soddisfatta. "E appena il mio papà si sarà costruito una barca, mi verrà a prendere, e così diventerò la principessa di una tribù negra. Urrà! Allora sì che ci divertiremo!"

13 gennaio 2016

Quei libri di un tempo

Se c'è uno scrittore che ha collezionato e raccontato ricordi, è sicuramente Marcel Proust. Ecco ciò che lo scrittore francese affermava in merito ai libri prediletti sfogliati nella sua infanzia:
«...Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d'un libro prediletto... ancor oggi, se ci capita di sfogliare quei libri di un tempo, li guardiamo come se fossero i soli calendari da noi conservati dei giorni che furono, e con la speranza di veder riflesse nelle loro pagine le dimore e gli stagni che più non esistono...»
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11 gennaio 2016

Devo trovare ciò che mi sta a cuore


Quando alcuni adolescenti mi hanno chiesto consigli di lettura appropriati per la loro età, non ho avuto dubbi: ho citato i romanzi di Alessandro D’Avenia.

Il primo, Bianca come il latte. Rossa come il sangue è diventato famoso perché ne è stato tratto anche un film. Però, come spesso accade, nel libro c’è molto di più.

Credo che tutti conoscano a grandi linee la storia di Leonardo, il sedicenne innamorato di Beatrice, la ragazza dai capelli rossi che si ammala di leucemia. Intorno a questa vicenda, si snodano i temi propri dell’età: il rapporto con gli amici, la scuola con i suoi insegnanti, lo sport e la musica; ma anche l’amore, la sofferenza, lo sgomento, la ricerca del senso della vita.

Nella pagina che vi offro oggi, Leonardo – partendo da un breve scambio con il suo prof di storia e filosofia – inizia a riflettere sui propri sogni (quelli veri e grandi, che scaturiscono dalla passione e accendono la vita).
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Ho parlato con il Sognatore, finalmente.
«Come si fa a trovare il proprio sogno? Però, prof, non mi prenda in giro.»
«Cercalo»
«Come?»
«Poni le domande giuste.»
«Che vuol dire?»
«Leggi, guarda, interessati… tutto con grande slancio, passione e studio. Poni una domanda a ognuna delle cose che ti colpiscono e appassionano, chiedi a ciascuna perché ti appassiona. Lì è la risposta al tuo sogno. Non sono i nostri umori che contano, ma i nostri amori.»
Così mi ha detto il Sognatore. Come gli vengano in mente certe frasi lo sa solo lui. Devo trovare ciò che mi sta a cuore. Ma l’unico modo per scoprirlo è dedicarci tempo e sforzo e questo non mi convince…
Provo a seguire il metodo del Sognatore: devo partire da quello che già so. Mi sta a cuore la musica. Mi sta a cuore Niko. Mi sta a cuore Beatrice, mi sta a cuore Silvia, mi sta a cuore il mio motorino, mi sta a cuore il mio sogno che non conosco. Mi stanno a cuore papà e mamma quando non rompono. Mi sta a cuore… forse basta… Sono troppo poche queste cose, ce ne vogliono di più. Devo mettermi d’impegno a scoprirle e a ognuna porre le domande giuste.

08 gennaio 2016

Un piacere personale


Spesso ci imbattiamo in consigli su “che cosa leggere”. Oggi ci è offerto un suggerimento su “come leggere”: ce lo regala lo scrittore argentino Jorge Luis Borges
«La lettura deve essere una forma di felicità, quindi io consiglierei ai lettori di leggere molto, di non lasciarsi intimorire dalla reputazione degli autori, di continuare a cercare una felicità personale, un piacere personale. Questo è l'unico modo di leggere»..


 

05 gennaio 2016

Cani perduti senza collare

In queste settimane di vacanza ho riletto Cani perduti senza collare, romanzo in cui lo scrittore francese Gilbert Cesbron (1913-1979) descrive l’esistenza di alcuni ragazzi in un istituto di correzione, nell’immediato dopoguerra. Storie drammatiche, apparentemente senza speranza. Passioni, grandi paure, discorsi. Un disperato (e mai colmato) bisogno d’affetto.  

Accanto a questi ragazzi, alcune figure adulte assumono una posizione educativa importante. Fra questi Lamy, il giudice dei minorenni: mai buonista, ma sempre teso a far emergere, in un contesto apparentemente senza speranza, semi nascosti di bellezza, di generosità, d'affetto, di purezza...

«Avanti! Adunata! Più presto!»
Zanna Bianca aspetta ancora un istante; fissa l’una dopo l’altra quelle facce ermetiche, poi dice lentamente:«Ascoltate bene! È stato rubato nel dormitorio un biglietto da cinquecento franchi, appartenente al vostro compagno Timeone. Spero che il ladro si denuncerà da sé, per evitarmi di punirvi tutti… Di punirvi gravemente!» aggiunse dopo un silenzio.
Nessuno si muove… E tuttavia!... Radar, contro ogni logica, va ad allinearsi presso i compagni – proprio accanto a Paulo, che l’ha derubato. È vero che è il solo a non saperlo!
«Sta bene» riprende zanna Bianca (e si direbbe ch’egli non sia scontento di quel silenzio). «Resteremo qui, fino a che il ladro si decida ad agire da uomo!»
Guarda l’ora al polso; lascia liberi con un gesto gli altri due capi, e comincia a percorrere a lunghi passi il prato.
Il capo Robert viene a parlargli a bassa voce:«Se per caso ce ne fosse uno che conosca il colpevole…»
«Lo conoscono tutti, mio caro!»
«Allora, uno di loro vorrà sicuramente…»ù«Denunciarlo? Certamente no! Nessuno glielo perdonerebbe… Io per primo, del resto! Ah no! Preferisco complici a delle spie! – e voi no?»
Robert si accomoda gli occhiali lungo il naso ossuto:«Allora si fermeranno là tutta la notte?».
«Se necessario, sì… E non ditemi che rischiamo di prendere freddo! Giochiamo una partita ben più importante, mio caro! Non dimenticate che tutti questi ragazzi, o quasi tutti, hanno rubato…»
«Non è stata colpa loro: la società in cui viviamo…»
«D’accordo! Ma io non ho in consegna la società. Devo soltanto trarre di impaccio sessanta ragazzi. Se spiego loro che sono delle vittime, resteranno tali per tutta la vita: è un ruolo più piacevole di quel che pensate! Io li persuado che un giorno avranno, come gli altri, una famiglia e un mestiere, e che questo è più onorevole del vagabondaggio e del bistrò... »



03 gennaio 2016

Il diritto ad avere un figlio

A che cosa serve un padre?  È davvero necessaria la sua presenza? Ci può essere un'ipotesi misteriosa di bene, nascosta nel groviglio degli errori degli uomini?
La pagina che vi offro oggi è tratta da Il Destino del Fuco di Susanna Manzin. Il romanzo narra la storia di due ragazzi nati entrambi a seguito di fecondazione eterologa, da un donatore anonimo. Quando per un susseguirsi di imprevedibili vicende sarà rivelata l’identità del padre biologico, i due giovani - e gli altri personaggi che ruotano intorno a loro - si troveranno a vivere un’esperienza di angoscia cui non erano preparati.


Descritto così, potrebbe sembrare un romanzo di quelli talmente “impegnati” da piacere solo a pochi appassionati del genere; invece è un libro godibilissimo, profondo, avvincente, ben scritto. Riesce ad affrontare - senza mai banalizzarli - temi delicati come la famiglia, la paternità, il dolore, il bisogno di senso; e nello stesso tempo sa accompagnare il lettore dentro la semplicità di cose buone e belle, come un ottimo pranzo, i colori della natura, un bicchiere di vino bevuto in compagnia.


Nel brano che segue, uno dei personaggi - l’avvocato Giorgio - parla con il suo cliente, Riccardo…



 
Quando Riccardo gli chiedeva un appuntamento, rispondeva sempre che sarebbe venuto lui di persona all’agriturismo per sentire di quale questione di sarebbe dovuto occupare. Non era chiaro se lo facesse per esagerata generosità o per scroccare un pranzo e un bicchiere di ottimo vino.
Per ora si accontentava del caffè, che sorseggiava lentamente, guardando in direzione di una finestra aperta sul giardino, ma non si capiva se lo sguardo riflessivo fosse perso verso l’orizzonte  o fosse concentrato sul carrello dei dolci, posto sotto la finestra.
Quando riccardo tacque, si girò verso di lui, posò la tazzina, accavallò le gambe.
«Non ti nascondo che la vicenda è intricata, da un punto di vista legale. Quando è stata approvata la fecondazione eterologa, la battaglia culturale e legale era incentrata sul diritto delle donne ad avere dei figli. Ogni loro capriccio doveva essere accontentato. Il partner non era fertile? Bastava andare ad un supermercato del seme ed eccole accontentate. Volevano un figlio senza avere accanto un uomo? Eccole servite. Negare loro questa opportunità sembrava crudele, egoista. Poi, con il passare degli anni, a fronte di molti casi controversi, è emerso il problema educativo, psicologico, genetico. Il mondo si è riempito di uomini che alla lunga si stancavano di fare i padri di ragazzi che in realtà non appartenevano a loro, e di ragazzi cresciuti senza un padre che all’improvviso pretendevano di conoscerlo. Ed ecco di nuovo la dittatura del desiderio. Vuoi liberarti di quel peso educativo? Fai accertare che non sei il vero padre. E tu, ragazzo, vuoi conoscere il tuo vero padre? Accomodati e ti faccio vedere la scheda del donatore. La sentenza ha cercato di porre rimedio a questi problemi. Che in realtà sono senza rimedio. Da qualunque parte la si guardi, la situazione non si aggiusta. Comunque, Riccardo, sei stato proprio tu a tirare fuori la questione, se tu fossi stato zitto nessuno avrebbe saputo nulla, quelle donne non sarebbero là fuori a imbottirsi di tranquillanti, quei ragazzi non sarebbero sconvolti e tu non avresti litigato con tua moglie. Io adesso non sarei qui a darti assistenza legale. […]»
Riccardo sprofondò ancora di più nella poltrona...




01 gennaio 2016

Un augurio sincero

Vi auguro un 2016 sereno:
con affetto e pace nelle vostre famiglie
con amicizie sempre più genuine e forti
con esperienze autentiche di Verità e di Bellezza
con incontri importanti per crescere
e... con la compagnia di tanti buoni libri!


Buon anno a tutti.
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