21 febbraio 2024

Bastarde di Francia

Parigi, 1631.
Mi aspettavo un vero e proprio romanzo storico, ma “Bastarde di Francia – L’angelo e la vergine” si è rivelato, capitolo dopo capitolo, qualcosa di un po’ diverso: una sorta di feuilleton, tra intrighi di corte e amori impossibili. Non esattamente il genere che prediligo, insomma. Nello stesso tempo, devo riconoscere che ne ho apprezzato alcuni aspetti.

Le due autrici Alessandra Giovanile e Virna Mejetta hanno saputo rendere con efficacia luoghi e ambienti dell’epoca, forse anche grazie alla loro formazione in architettura. Che cosa mi ha più incuriosita? Una significativa parte della vicenda si svolge nella mia Torino.

Intendiamoci: è una Torino molto diversa da quella cui siamo abituati a pensare quando ripercorriamo i secoli gloriosi di Casa Savoia.
Siamo nel 1631, all’indomani di un’epidemia di peste che ha decimato la popolazione. La città si estende su un’area piuttosto limitata, cinta da mura e protetta da bastioni.

[...] La città, come la chiamava lui, era un paesotto immerso in una quiete irreale. Oltre il traffico vivace in prossimità della porta, la gente per le strade era poca e il silenzio artificioso. Forse faceva troppo freddo. 
La vettura percorse una strada dritta, affiancata da edifici in costruzione, poi ne costeggiò una più stretta, senza cambiare direzione. Sulla destra si ergeva il blocco di una fortezza che ricordava vagamente la Bastiglia.
Ci infilammo in un passaggio stretto, superando altri edifici non finiti e quella che Roero mi disse essere la cattedrale, dal profilo tipicamente italiano. [...]

Quello che poi diventerà Palazzo Reale non esiste ancora, lo si sta appena progettando. I duchi risiedono a Palazzo San Giovanni, che verrà demolito due secoli dopo; sorge poco distante, accanto al Duomo.

[…] C’era un giardino dietro il palazzo San Giovanni, proprio a ridosso del bastione della Madonna degli Angeli. Era bastione solo di nome: somigliava più a un casino di caccia, fatto per il riposo, le chiacchiere e le schermaglie amorose. Quella sera con Elisabetta eravamo quasi giunte al padiglione: io mi ero seduta mentre lei si era affacciata sulla campagna […]

Quello che un giorno diventerà Palazzo Madama (con la sontuosa facciata che Juvarra progetterà nel ‘700), ha ancora la denominazione originaria di Castello degli Acaja, e sembra una specie di fortezza, con quattro torri angolari.

[…] Attraversai la piazza sotto una pioggerellina fine per raggiungere il castello degli Acaja.
Le mura scure ricordavano più quelle di un luogo di tortura che quelle di un luogo di potere. Era stato porta della città romana e poi prigione. Aveva ospitato gli antenati di Vittorio e infine Cristina ne aveva preso un possesso così risoluto che ormai tutti in città lo designavano come sua sede alternativa: il Palazzo della Madama.
Il valletto mi condusse attraverso una teoria di stanze, fino a giungere agli appartamenti in prossimità della torre sud-orientale. Erano arredati con buon gusto, ma con un tocco antiquato da XVI secolo. Le pareti erano coperte da arazzi, più che da tappezzerie, e il lusso era ostentato, anche se gli si poteva riconoscere una certa eleganza. […]

Altre zone iconiche della città - come piazza San Carlo, la chiesa del Monte dei Cappuccini, la futura via Po – sono ancora in fase di progettazione.
Subito oltre il fiume, la collina è punteggiata di ville nobiliari – chiamate “vigne” – ciascuna circondata da terreni coltivabili. 

Il Castello del Valentino esiste già: è una sorta di “residenza fluviale”, che la duchessa ha scelto come proprio luogo di elezione, teatro di feste ed eventi. 
Per attraversare il Po, privo di ponti in pietra, si utilizzano le barche.

[…] Scendemmo la scalinata verso la riva con cautela: ogni gradino avrebbe dovuto avere un lumino, ma molti stoppini si erano spenti per l’umidità. Solo giunti al fondo di quell’oscurità alzai lo sguardo e rimasi stupefatta.
Avevo visto la residenza di campagna di Cristina da lontano: il grigio-azzurro dei tetti e più spesso solo il loro profilo appuntito e scuro, stagliato contro il rosseggiare del tramonto.
Ora, da vicino e perfettamente in asse con esso, notavo un’imponenza di ottimo gusto, i vuoti e i pieni perfettamente bilanciati tra loro, con le vetrate illuminate che luccicavano come fossero d’oro.
Il Po era nero e mosso da onde e le barche facevano la spola tra gli approdi. Era stato creato un cordone di zattere, riempite di lumi che si riflettevano nell’acqua mobile e che permettevano, a chi non fosse oberato da un abito come il mio, di percorrerle una dopo l’altra per attraversare il fiume a piedi. […]

Fuori città, il Castello di Rivoli è per i Savoia un luogo particolarmente caro.

[…] Il profilo severo del castello apparve all’improvviso.
Percorsero il viale che si inerpicava sulla collina, tanto folto di vegetazione da non dare l’idea dell’ascesa. Infine giunsero all’edificio, per nulla addolcito dalle arcate fatte aggiungere negli anni più recenti.
Di giorno l’interno del castello di Rivoli non aveva nulla di tetro. Le grandi sale erano invase di luce; le volte dipinte erano più sontuose che a Palazzo Ducale. Attraverso alcune finestre arrivava il vivace cinguettio dagli alberi che circondavano la collina. […]

Sulla strada verso la Francia, lassù in alto, si staglia la mole antica della Sacra di San Michele.

[…] «Ora posso aprire bocca?» rispose lui sarcastico. Posò il pugnale sul tavolo. «Qui passa la strada di Francia: è ben segnata e non è mai stata abbandonata all’incuria e…» Un bicchiere. «Noi siamo qui. Prenderete la strada verso ovest e, dopo un’ora di cammino, alla vostra sinistra incomberà l’antica abbazia di San Michele della Chiusa.»
Giunti a ridosso del complesso, lo sbigottimento li aveva fatti arrestare. Una mole che sembrava tenuta insieme da una moltitudine di archi rampanti spiccava sulla cima del monte come se vi fosse infilzata. L’ascesa dalla piccola strada insieme alla bruna umida dell’alba rendeva la sorpresa ancora più viva. […]



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