19 gennaio 2023

La salita dei giganti. La saga dei Menabrea

La piccola Genia è figlia di Carlo Menabrea, l'imprenditore che ha reso grande il birrificio di famiglia, fondato dal nonno alcuni anni prima. 

La sua è un'infanzia felice, trascorsa tra Biella (dove i Menabrea risiedono e lavorano), e Gressoney (dove hanno le proprie origini). I suoi genitori sono legati da un amore denso di tenerezza e complicità; le sue sorelline sono per lei compagne di giorni sereni. 

Un giorno il papà la porta con sé per un'impegnativa escursione in montagna. Genia ha solo sei anni, fatica a tenere il passo, ma stringe i denti e resiste: non vuole deludere quel padre meraviglioso, così presente nella sua vita nonostante le lunghe assenze per lavoro. Quando giungono finalmente in vetta, al cospetto dei Giganti del Monte Rosa, papà è fiero di lei. E compie un gesto singolare: le fa assaggiare un sorso di birra. (Vi offro in lettura quella pagina, la trovate fra poche righe).

La bambina non lo sa, ma quel sorso ha per il padre - già minato dalla malattia -  un significato profondo; è il suo modo per dirle: ho scelto te, piccola mia, sarai tu a portare avanti ciò che mio padre ha iniziato, e io ho reso grande. Genia lo capirà molto più tardi: dopo la morte prematura del padre, dopo anni di fatiche e di sfide. 

Francesco Casolo, ne "La salita dei giganti", ripercorre la vita intensa di Genia, donna coraggiosa; un'esistenza costellata di dolori e lotte, gioie e conquiste, attraverso decenni di storia italiana. Il risultato è un libro meraviglioso, che è insieme saga familiare, racconto di formazione, romanzo storico.

Lei gli andò dietro e in tre passi si ritrovò sul punto più alto, da dove finalmente riuscì a vedere dall'altra parte. Era come diceva suo padre: adesso si trattava solo di scendere, lasciando andare le gambe. Era sudata fradicia e le facevano male i piedi, ma ce l'aveva fatta.
Vide suo padre frugare nello zaino.
"Cosa cerchi?"
"Aspetta."
"Dai, dimmelo," insistette.
"Festeggiamo, Genia. Sei arrivata in cima..."
Lei abbassò gli occhi, intimidita, poi lo vide estrarre una bottiglia. Capì abbastanza in fretta che quella cosa, almeno quella, non se la sarebbe più dimenticata.
"Brindiamo?"
Intendeva veramente...
"Papà..." sorrise.
"Tienila sulla lingua. Non berla."
Genia afferrò la bottiglia di vetro. Era fresca, in trasparenza di un colore rame scuro. Le tremavano le braccia, forse solo per la stanchezza: pensò che le sarebbe potuta cadere e avrebbe rovinato tutto. Lesse la scritta Menabrea, pensò a suo nonno, il nome era su quella targa e anche sul vetro della bottiglia. [...]
Guardò suo padre: era di nuovo felice, più papà che signor Carlo Menabrea. E per niente l'uomo stanco e fragile che l'aveva soccorsa qualche ora prima nel torrente.
Fede esattamente quello che lui le aveva detto: si portò la bottiglia alle labbra, la tenne in bilico e poi lasciò scivolare pian piano il liquido finché non lo sentì sulla lingua. Rimase ferma, senza bere, senza muovere la bottiglia, solo facendo mulinare la lingua in quel liquido.
"Com'è?"
Deglutì.
"Dai, com'è?"
Genia fissò suo padre.
"Ti piace?"
Fece sì con la testa. Sì, era buona, buonissima. O almeno le sembrava che lo fosse. E però. No, non adesso. Non ci pensare, Genia. Non adesso.
Abbassò gli occhi. La diga si sollevò, rapidissima.
Carlo se ne accorse.
"Non è niente, Genia, ti dico che non è niente, sto bene..."
Non servì a nulla.
Genia strinse i denti, serrò gli occhi ma, imboccando il sentiero verso il basso, la diga crollò. Testa bassa e gambe in spalla, un piede davanti all'altro, un piede davanti all'altro, pianse a dirotto.



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