09 luglio 2017

Il filo d'oro



Corre l’anno 1521. Uli il Lungo, mercenario svizzero valoroso e intelligente, gioca un ruolo decisivo nell’assedio di Pamplona: artigliere esperto, con un perfetto colpo di cannone crea nelle mura una breccia decisiva, e ferisce gravemente un giovane ufficiale basco, Iñigo de Loyola. Uli riceve l’ordine di ricondurlo alla sua nobile casa.

Con loro, travestita da ragazzo, parte anche la giovane Juanita, rocambolescamente sottratta a un’aggressione da parte della soldataglia.

Inizia così un’intensa, stupenda storia “on the road”, che condurrà i nostri personaggi fino in Terra Santa, e non solo.

Con Il filo d’oro. Il racconto della vita di Ignazio di Loyola lo scrittore Louis de Wohl (1903 – 1961) ci offre un altro romanzo storico imperdibile, in cui le vicende più avventurose s’intrecciano con le domande più vere.


…Perciò la faccenda era chiusa.
E la caraffa era vuota. E anch’io, pensò. Non mi resta più niente.
Be’, almeno aveva riconquistato la sua libertà. Non era più tenuto ad andare al castello di Loyola, o in qualsiasi altro posto, nemmeno da André de Foix. Che senso avrebbe avuto affannarsi a rintracciarlo, solo per dirgli che la sua bella cugina non poteva fare niente per lui?
Era libero. Qualunque cosa significasse.
In realtà Uli lo sapeva benissimo cosa significava. Significava prestare giuramento di fedeltà a qualche altro gran signore, o anche uno piccolo, portarne le stupide insegne e combattere in nome suo l’ennesima, stupida guerra. Vedere altre terre devastate, case incendiate, uomini massacrati, donne stuprate, bambini resi orfani.  […]
La sua libertà era una catena.
E la cosa buffa era che avrebbe dovuto essere contento. Era forte e sano, con un bel gruzzolo di ducati d’oro in tasca e al dito un anello di rubino sufficiente a comprarsi una piccola fattoria da qualche parte, se avesse voluto.
Sì, aveva ogni motivo di sentirsi soddisfatto.
Dunque, per tutti i diavoli, perché invece gli veniva da piangere?
E quell’uomo [Ignazio di Loyola], era felice, lui? L’uomo che disprezzava i rubini e mendicava spiccioli di rame.
Perché se lo era, la sua felicità non era adatta ad Uli il Lungo.
Gli uomini sono diversi, e ciascuno ha le sue aspirazioni.
Da piccolo, gli raccontavano spesso la storia di un prozio, Nikolaus von der Flue […]
Da eremita si faceva chiamare fratello Klaus, e durante le cene di famiglia i von del Flue lo citavano talmente spesso come modello esemplare di vita cristiana che per spirito di contraddizione Uli mangiava sempre una doppia porzione di tutto.
Magari era vero che fratello Klaus era un medello di vita cristiana.
Forse per diventare davvero buono un uomo doveva recidere ogni legame con il mondo, anche se chissà cosa sarebbe diventato, il mondo, se tutti avessero seguito il suo esempio.
A quel pensiero gli venne da ridere.  Nel suo caso non c’era proprio rischio che accadesse. Anzi, ora sarebbe sceso in taverna a ordinare un’altra caraffa di vino di Xeres, o meglio ancora tre, e si sarebbe sbronzato come si deve. Fece epr alzarsi, poi ricadde a sedere. No, era un rimedio da sciocchi. Come mangiare una doppia porzione.
Fratello Klaus era andato molto oltre. […]
Di sicuro, anche se Dio se ne infischiava di lui, fratello Klaus non ne ricambiava l’indifferenza. E magari, da vecchia volpe, lo aveva costretto a notarlo proprio con quell’abnegazione totale. Gli si era letteralmente gettato tra le braccia. Aveva dato l’assalto al cielo.
Era un’idea interessante. Si poteva superare Dio in generosità?
Com’era quella vecchia preghiera tramandata in famiglia?
Uli aggrottò la fronte. Erano anni che non pensava a fratello Klaus. Chissà perché gli era tornato in mente proprio adesso. Ma com’era quella preghiera? A casa la ripetevano di continuo. Dicevano fosse il suo detto preferito. «Come diceva il prozio…»
Sedevano al tavolo apparecchiato con i piatti e i boccali di latta, a mani giunte. Fuori nevicava. E prima ancora della preghiera di ringraziamento, il padre di Uli recitava quella del prozio: Signore e mio Dio, toglimi da me stesso e prendimi tutto per Te».

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