Nelle serate autunnali non c'è miglior ristoro di un buon libro sfogliato al calduccio. Magari sul divano, con una copertina morbida sulle gambe, e una tisana calda a portata di mano...
Buona lettura!
Il piacere di leggere, il coraggio di sognare, la voglia di crescere. Narrativa, e non solo.
«Ricambiate i saluti militari, al vostro ritorno» mi intima. «'Portatrici' vi chiamano. Vi considerano un reparto, e non a torto. Credo sia la prima volta nella storia di un conflitto armato.»
Mi volto verso gli uomini accucciati con i fucili in mano.
I loro saluti rispettosi di poco fa non erano per il capitano.
Erano per me. Per noi.
Probabilmente molti conoscono Ilaria Tuti per i romanzi che hanno come protagonista la commissaria e profiler Teresa Battaglia ("Fiori sopra l'inferno", "Ninfa dormiente", "Figlia della cenere"), da cui è stata tratta recentemente una bella serie TV.
"Fiore di roccia", però, è qualcosa di molto diverso. Si distacca dai thriller dell’autrice, per raccontare una pagina poco conosciuta della Prima guerra mondiale: quella delle portatrici carniche, donne friulane che trasportavano viveri, munizioni e medicinali lungo i sentieri impervi della Carnia per rifornire i soldati al fronte.
La protagonista è Agata, una giovane donna che - come tante altre sue compaesane - risponde alla chiamata dell’esercito italiano per aiutare gli alpini. Con una gerla sulle spalle e scarpe di stoffa, affronta dislivelli e carichi impressionanti.
La vicenda personale di Agata si intreccia con quella collettiva delle portatrici, in un contesto drammatico di guerra, miseria, ma anche solidarietà genuina e sacrificio eroico.
"Cercano più le parole di conforto che le scorte di cibo" mormora Lucia, accanto a me. La vedo trattenere un sorriso e penso che non smetterà mai di essere madre di qualunque creatura inerme abbia bisogno di essere accolta. Chi può sorridere davanti a tutta questa devastazione, se non chi vuole con tutta se stessa continuare a vederci la vita? In mancanza di questa sua vocazione, nessuna di noi ora sarebbe qui.
La mia impressione è che con questo romanzo la Tuti abbia superato se stessa, grazie a uno stile evocativo e poetico, ora forte ora sfumato, che riesce a coinvolgere emotivamente il lettore a ogni pagina.
"Ho scelto di essere libera". Libera da questa guerra, che gli altri hanno deciso per noi. Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto. Quando tutto attorno a me era morte, io ho scelto la speranza.
Volge al termine il primo giorno di lavoro dopo le ferie estive. Nonostante le energie accumulate durante le vacanze, alla sera la stanchezza si fa sentire. Il progetto è andare a letto presto, in compagnia di un buon libro. Quante pagine riuscirò a leggere prima di addormentarmi?
Per chi è interessato alla storia e alla cultura, si consiglia una visita un po' speciale al Castello di Racconigi: è disponibile un tour focalizzato sulla vita quotidiana di Carlo Alberto e della sua corte, che qui trascorrevano lunghi e piacevoli mesi durante la bella stagione.
È il percorso guidato "Vita privata di un re", che non vuole sostituire la visita tradizionale, ma arricchirla con l'accesso - oltre che alle sale di rappresentanza e alla galleria del fregio palagiano - anche ad ambienti di solito chiusi al pubblico, legati alla vita più intima del re, ai suoi interessi, alle sue passioni.
Particolarmente suggestiva ed emozionante - soprattutto per chi ama profondamente i libri - la preziosa Biblioteca.
È l'occasione per conoscere più a fondo - e da un'angolazione insolita - la figura complessa di questo sovrano così particolare: tosto e tormentato a un tempo, rigorosamente austero eppure sensibile alla bellezza.
Durante una vacanza sul Lago d'Orta, poteva forse mancare la visita al museo di Gianni Rodari, che tanto amava questi luoghi?
Tutti noi, da piccoli, abbiamo letto, ascoltato e spesso imparato a memoria le sue filastrocche! Ma Rodari è stato molto di più: scrittore, giornalista, educatore. Rodari è nato qui a Omegna nel 1920, e ha trascorso parte della sua vita in questa cittadina.
Il museo è dedicato alla sua vita, alle sue opere e alla sua "poetica". Non si limita a esporre oggetti: coinvolge i visitatori in un'esperienza multimediale immersiva che diverte e appassiona i "bambini" di tutte le età. Che bello! Si gioca con le varie installazioni, ci si stupisce dei testi che scendono "magicamente" dagli scaffali, si ascoltano "favole al telefono"... insomma: si libera la fantasia! E noi adulti ne abbiamo davvero tanto bisogno.
"Come l’arancio amaro" è un romanzo corale e profondo che racconta la storia di tre donne le cui vite si intrecciano in modo drammatico nella Sicilia del Novecento. Ognuna affronta sfide personali e sociali in un mondo che spesso le costringe a rinunciare ai propri sogni.
Anni ’20: Sabedda, tipica ragazza "del popolo" senza il becco di un quattrino, vittima delle attenzioni violente del "baruneddu" di turno, è costretta a rinunciare alla figlia appena nata. Nel frattempo Nardina, giovane donna nobile e infelice, accetta il ruolo che la società le impone, e si adatta ad accogliere come figlia una neonata non sua.
Anni ’60: Carlotta, cresciuta in una famiglia che non le ha fatto mancare nulla (se non la tenerezza), lotta per diventare avvocato in un mondo dominato dagli uomini.
Le due linee temporali si intrecciano continuamente, perché in realtà sono due facce di un’unica storia.
Milena Palminteri esplora con sensibilità i conflitti interiori delle protagoniste: il senso di perdita, la ricerca della verità, il bisogno di affermazione e di amore. Le protagoniste affrontano traumi, segreti e ingiustizie, ma trovano anche il coraggio di cambiare, di perdonare e di riconciliarsi con sé stesse.
Appena terminata la lettura, mi è capitato qualcosa che non sempre accade: ho provato una specie di nostalgia. Ho pensato che Sabedda, Nardina e Carlotta mi sarebbero mancate. Immagino che questo sia un indicatore significativo di efficacia narrativa.
«Carlotta mia, io dell'arancio amaro conosco solo le spine e ormai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, è quello della libertà»
La metafora dell’arancio amaro rappresenta bene l'esistenza delle protagoniste: si tratta di un albero che produce frutti belli, profumati, ma dal sapore aspro. Di più: è pratica diffusa in agronomia innestare sull’arancio amaro varietà di agrumi più pregiate, per ottenere piante più resistenti alle malattie e più adatte al terreno.
Questo contrasto tra apparenza e sostanza riflette la condizione delle donne nel romanzo: le protagoniste vivono in un mondo che spesso le giudica per ciò che appaiono, non per ciò che sono; e nello stesso tempo le loro vite sono segnate da rinunce, dolori, segreti e sacrifici. Da cui però germogliano inattese possibilità di rinascita e realizzazione.
«Perché cosa, cosa ne è, di noi, senza la speranza?»
Immaginavo un romanzo tutto sommato "light", da leggere nel tempo libero di un’estate assolata. Invece "Tutta la vita che resta" è un gran pugno nello stomaco. Nello stesso tempo cattura l’attenzione, e coinvolge il cuore.
La storia ruota attorno a Marisa, una donna che negli anni Cinquanta sfida le convenzioni sociali rimanendo incinta fuori dal matrimonio. Dopo l’abbandono da parte del padre del bambino, trova un amore sincero e solido in Stelvio, garzone nella bottega del padre, che diventa suo marito e compagno di vita. Insieme costruiscono una famiglia, crescendo due figli: Ettore, appassionato di musica, e Betta, una ragazza vivace e solare.
Tuttavia, nell’estate del 1980, durante una vacanza sul litorale laziale, la serenità familiare viene spezzata da un evento drammatico: Betta viene violentata e uccisa. Con lei c’è Miriam, la cugina, che sopravvive ma resta segnata da un dolore silenzioso e paralizzante.
Il romanzo si concentra sulle conseguenze psicologiche di questa perdita: il lutto, la colpa, il silenzio, e la difficoltà di continuare a vivere quando tutto sembra perduto.
Roberta Recchia riesce a raccontare questa storia con uno stile semplice e toccante, dando vita a un romanzo intenso e delicato che esplora le ferite profonde lasciate da una tragedia familiare, intrecciando passato e presente con grande sensibilità psicologica.
Incontrai la scrittura intensa e viva di Valérie Perrin alcuni anni fa, leggendo "Cambiare l’acqua ai fiori"; l’ho poi ritrovata in tempi più recenti, leggendo "Tatà".
Il nuovo romanzo della scrittrice francese narra la storia di Agnès, regista di successo in crisi creativa. La donna riceve una telefonata inattesa: la sua tatà (zia) Colette, che credeva morta da tre anni, è stata appena ritrovata morta… di nuovo! Agnès torna nel villaggio di Gueugnon, dove trascorreva le vacanze da piccola, e scopre una valigia piena di audiocassette lasciate dalla zia. Attraverso queste registrazioni, Agnès ricostruisce la storia della sua famiglia e si addentra in vicende misteriose.
Sviluppata su più archi temporali, la vicenda si tinge di giallo, ma resta soprattutto una bella storia al femminile, in cui donne dalla personalità complessa danno prova di una forza inaspettata (oggi si direbbe "resilienza", con un'espressione ormai abusata).
Come "Cambiare l’acqua ai fiori", anche "Tatà" esplora i temi della memoria e della perdita, dell'amore e dell'amicizia, del passato familiare che torna a galla (spesso attraverso oggetti che scatenano il ricordo).
Una lettura piacevole, ideale sotto l'ombrellone.
Sabato 17 maggio lo scrittore Daniele Mencarelli ha presentato il suo ultimo libro in un evento organizzato dalla Biblioteca comunale "Luciano Tamburini" di Villarbasse, a margine del Salone Internazionale del Libro. È stata una matinée piacevolissima, nella cornice elegante di Palazzo Mistrot.
In "Brucia l'origine" Mencarelli racconta la storia di Gabriele, un "millenial" approdato a Milano per realizzare il suo sogno: diventare un designer di successo. Ha talento e determinazione; in otto anni riesce a diventare uno dei professionisti più quotati in questo campo. Insomma: è uno che "ce l'ha fatta".
Il romanzo inizia proprio a questo punto: Gabriele ritorna a Roma per alcuni giorni, in occasione del quarantesimo anniversario dei genitori, e all'improvviso si rende conto di non essere un uomo felice. Il tema delle origini si impone con tutta la sua potenza, in un crescendo di malinconia e di ricordi.
«Gabriele rappresenta il paradigma di chi attraversa mondi - ha spiegato Mencarelli - e in questi spostamenti si arricchisce, sia economicamente sia culturalmente. Si rende conto di quanto sia grande il mondo, e di quanto sia piccola la sua origine, della quale in fondo si vergogna. Comprende che mettere in relazione questi mondi così diversi non è per lui possibile. Diventa un mentitore seriale, un bugiardo che soffre. Mente perché parte dal presupposto che il mondo milanese, che si presenta come liberal-progressista, in realtà giudicherebbe male le sue origini di borgataro romano. Questa consapevolezza lo fa soffrire: sa di appartenere a due mondi che in realtà non potranno mai stare insieme».
Insomma: l'origine brucia, eccome.
Era già evidente in "Il treno dei bambini" e in "Oliva Denaro": Viola Ardone possiede il raro talento di saper trattare in modo lieve – spesso con accenti di delicata ironia – temi e storie di estrema drammaticità.
In "Grande meraviglia" – ambientato negli anni ’80 del Novecento – l’autrice racconta la realtà feroce del manicomio, vista attraverso lo sguardo limpido e irriverente di una ragazzina. Qui Elba è nata, qui è cresciuta; qui incontrerà il dottor Meraviglia, giovane psichiatra che lotterà per "liberarla", e che nel rapporto con lei scoprirà in sé una sorta di maldestra paternità.
Fin dalle prime pagine – che qui vi offro come assaggio – si coglie l’assoluta originalità dello stile...
«Il mezzomondo è la casa dei matti, ci stanno i cristiani che sembrano gatti: non hanno la coda, non sanno miagolare, però sono gatti. Gatti da legare.
Stamattina è arrivata una Nuova e le ho dovuto spiegare tutto daccapo: in principio c’è Colavolpe, poi Lampadina, poi gli infermieri, poi i sorveglianti, poi nulla, nulla, nulla, poi sempre nulla. E infine i matti.
Devi sapere per prima cosa che qui e come il mare: ci sono le Tranquille e ci sono le Agitate. Un mare chiuso ma sempre mare, e in ogni mare si può navigare. Dentro al mezzomondo ci sta pure Elba, che sono io, ma per me questo è il mondo intero, perché il resto che c’è non so neppure cos'è. Aha.
La Nuova non parla, non dice il suo nome. All’inizio è così: fanno spesso il silenzio, poi alcune partono e non si fermano più, dicono insalate di parole, una lingua segreta che nessuno capisce. Ed è inutile starle ad ascoltare quando cominciano a burbureggiare.
Nessuna risposta. Conto fino a cinque virgola sei e poi ricomincio.
Vuoi sapere perché mi chiamo Elba? Chiedo alla Nuova. Lei strizza l'occhio sinistro: lo prendo per un sì. E il nome di un grande fiume del Nord che passa per la Germania, me lo ha dato la mia Mutti, che in tedesco significa mamma. Lo sai tu dov'è la Germania sulla carta geografica? Ce ne sono due: una gialla e una arancione, così ho imparato alla scuola delle Suore Culone, dove mi hanno mandata quando avevo nove anni, per farmi studiare. La mia Mutti veniva da quella arancione, che però adesso è tutta chiusa dentro al comunismo. Ci hanno fatto un muro intorno proprio come qui al mezzomondo, nessuno può entrare o può uscire, solo i fiumi scorrono liberi, perché non li si può fermare. Il fiume che porta il mio nome attraversa la Germania arancione e si getta nel Mare del Nord. Tutti i fiumi arrivano al mare, diceva la Mutti.
La Nuova si attorciglia nella coperta come una gatta scontrosa. Io mi frego con la nocca dell'indice la piccola gobba che ho sul naso tre virgola quattro volte e riprendo a spiegare.
La Mutti è scappata tanti anni fa dalla Germania arancione, però è finita ugualmente dietro un muro. L'hanno internata qui, ma non era da sola: aveva già me nella pancia, e tante cose dentro la testa. La matematica, le lingue straniere, i nomi di tutte le specie animali e vegetali, e la pazzia.
Sono stata cinque anni dalle Suore Culone, quando finalmente sono tornata la Mutti era sparita. Colavolpe ha detto che è morta, ma io non gli credo, perché ogni tanto sento la sua voce. La Nuova sospira e una puzza di fame si spande per la stanza. Che credi? Mica sono come le stralunate del terzo piano, che le voci le immaginano soltanto! Altrimenti Colavolpe mi avrebbe spostato con loro, perché lui e il capintesta del mezzomondo e comanda sui pazzi e sui sani, sia bestie che umani.
La Nuova alza le spalle e si mummifica nella coperta, forse ha un po' freddo come noi tutte. Solo che alcune hanno freddo sopra la pelle, altre sotto, come me...».
Anno domini 1944. Roma, sul finire della guerra, è stretta in una morsa implacabile. Gli Alleati, sbarcati in Italia da mesi, tardano a raggiungere la Capitale; intanto i Tedeschi, prossimi alla sconfitta, diventano più feroci che mai. Ogni tentativo di ribellione è soffocato nel sangue (siamo nei giorni cupi delle Fosse Ardeatine, per intenderci). Il ghetto ebraico viene rastrellato, ovunque serpeggia il terrore.
Eppure, lontano dai teatri di guerra, lontano dalle stanze del potere, gesti di eroismo nascosto scrivono luminose pagine di storia. Come quelle di tanti conventi e luoghi sacri che si aprono clandestinamente all'accoglienza dei più disperati.
Ritanna Armeni si cimenta nel racconto intenso di una di queste pagine di storia: un gruppo di suore francescane accoglie alcuni ebrei sfuggiti al rastrellamento del ghetto, e li nasconde al secondo piano del convento. Poco tempo dopo, un comando tedesco requisisce il pianterreno per installarvi un'infermeria militare. Iniziano così lunghi mesi di rischio costante, in cui l'attenzione deve mantenersi ai massimi livelli giorno e notte.
Dato il contesto, "Il secondo piano" potrebbe essere un romanzo cupo, angosciante, opprimente. Invece fin dalle prime pagine si rivela una storia delicata, bella. In cui eroismo e semplicità, ribellione e quotidianità si miscelano con equilibrio lieve. E la lettura scorre.
«Il campanello ruppe il silenzio e attraversò l’androne; deciso e prolungato, il suono superò la vetrata che dava sul giardino e arrivò suor Lina.
La novizia, che stava raccogliendo le lenzuola stese ad asciugare sui fili tesi tra gli alberi, lo sentì bene ma decise di non precipitarsi al portone. Ci sarebbe andata qualche altra sorella, lei aveva cose più urgenti da fare. Doveva salvare la biancheria»...
Dopo aver visto il bel film Mio fratello rincorre i dinosauri, ho desiderato leggere il libro da cui era stata tratta la sceneggiatura. Ottima scelta: senza nulla togliere alla versione cinematografica, la storia originale - scritta in prima persona da Giacomo Mazzariol - riesce a rendere indimenticabile la vicenda umana di questo ragazzo che deve fare i conti con un fratellino dotato "di un cromosoma in più". Privo di alcune "aggiunte" (a mio parere discutibili e tutto sommato superflue) che il film ha voluto apportare, il libro è semplicemente stupendo. Un autentico romanzo di formazione, che però non è un romanzo. È una storia vera. Carne e poesia.
Permettetemi di offrirvene uno stralcio, che saprà farvi sorridere e commuovere...