I primi tre scatoloni erano
già stati svuotati e appiattiti, quando la ragazza si fermò incuriosita:
attraverso la finestra semiaperta filtrava il suono di una voce femminile che
cantava una specie di antica ballata in una lingua incomprensibile.
Paola si accostò con
discrezione al davanzale, ma non si affacciò; rimase seminascosta dallo stipite
a osservare la giovane donna che stendeva il bucato nel giardino dei vicini, proprio
nel punto in cui, il pomeriggio precedente, Paola aveva incontrato quella
ragazzina scontrosa di nome Cecilia.
Alta, slanciata, la donna
teneva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo che danzava
allegramente sulla schiena. Raccoglieva i capi di bucato da una bacinella
appoggiata sull’erba del prato e li stendeva a una corda tesa tra il palo della
luce e il muro occidentale della casa.
Assomigliava parecchio alla
ragazzina scorbutica conosciuta il giorno prima, ma di sicuro doveva avere
tutt’altro carattere. Probabilmente era la zia. Stendeva e cantava, cantava e
stendeva; il suo lavorare pareva una danza, e Paola rimase a osservarla affascinata. Si risolse ad
abbandonare la finestra solo quando la vicina ebbe terminato il lavoro e, raccolta
la bacinella vuota, rientrò in casa.
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