Convincente e commovente, Patria di Fernando Aramburu è un romanzo dal respiro ampio, che va ben oltre le vicende narrate. È la storia tormentata di due famiglie che vivono in un villaggio dei Paesi Baschi; vicini di casa, profondamente amici da sempre. Siamo negli anni settanta e ottanta; il terrorismo indipendentistico miete vittime, il fanatismo semina divisione.
Un giorno il padre di una delle due famiglie viene assassinato dall'ETA, in cui milita un figlio dell’altra. Da quel momento nulla è più come prima. L’amicizia va in frantumi, la fragilità umana mostra tutta la sua drammaticità.
Scorrono gli anni, ma il tragico evento rimane per tutti i membri delle due famiglie - e dell’intera loro comunità - come una ferita inguaribile.
Solo attraverso un’esperienza di perdono - implorato e concesso - la piaga potrebbe iniziare il suo lento, indispensabile processo di cicatrizzazione.
Oggi vi offro una pagina, tratta da uno dei capitoli iniziali. Come vedrete, il linguaggio è semplice, immediato; capace di rendere con straordinaria efficacia – e con una delicata "pietas" – la fragilità dei sentimenti.
Smontò dietro una signora, erano le uniche passeggere. Venerdì, tranquillità, tempo buono. E sull'arcata dell’ingresso lesse: PRESTO SI DIRÀ DI VOI CIÒ CHE SI SUOLE DIRE DI NOI: SONO MORTI! A me non m’impressionano con le frasette funebri. Polvere siderale (lo aveva sentito alla tele), quello siamo, sia che uno respiri sia che ingrassi i cavoli. E anche se detestava quell'odiosa scritta, era incapace di entrare nel cimitero senza fermarsi a leggerla. […]
La fila delle tombe si allunga in batteria al lato del sentiero. La cosa buona per Bittori è che, siccome il bordo sporge di due palmi da terra, si può sedere senza difficoltà sulla lastra. Certo, se piove, no. E in ogni caso, poiché la pietra di solito è fredda (e c’è la muffa e l’inevitabile sporcizia degli anni), lei porta sempre in borsa un quadrato di plastica ritagliato da un sacchetto del supermercato e un foulard per usarli come cuscino. Ci si siede sopra e racconta al Txato quello che ha da raccontargli. Se vicino c’è gente, gli parla con il pensiero; se non c’è nessuno, come succede di solito, conversa in tono normale.
«Nostra figlia è già a Londra. Lo immagino, diciamo, perché non ha avuto la gentilezza di chiamarmi. A te, ti ha chiamato? A me, no. Siccome alla tele non hanno detto niente di un incidente aereo, do per scontato che quei due saranno arrivati a Londra e staranno dandoci dentro per tentare di salvare il matrimonio». […]
Tre o quattro tombe più su c’era un’aiuola di sabbia, accanto al sentiero asfaltato. E Bittori si soffermò a guardare una coppia di passerotti che ci si era appena posata. Con le ali aperte, gli uccellini facevano un bagno di sabbia.
«L’altra cosa che volevo dirti è che la banda ha deciso di smettere di ammazzare. Non si sa ancora se l’annuncio è serio o se si tratta di un trucco per prendere tempo e riarmarsi. Ammazzino o no, a te cambia poco. E non credere che per me sia molto diverso. Ho un grande bisogno di sapere. L’ho sempre avuto. E non mi fermeranno. Nessuno mi fermerà. Neppure i figli. Ammesso che lo vengano a sapere. Perché io non gli dico niente. Sei l’unico che lo sa. Non mi interrompere. L’unico che sa che ci torno. No, in carcere non ci posso andare. Non so neanche in quale sta il delinquente. Ma loro certamente sono rimasti in paese. E poi mi è venuta la curiosità di vedere in che stato è la nostra casa. Tu, tranquillo, Txato, Txatito, perché Nerea è all'estero e Xabier, come sempre, vive per il suo lavoro. Non se ne accorgeranno».
I passerotti erano scomparsi.
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