Siete mai
tornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare? Con questa domanda
si apriva Ricordi di Scuola, il libro in cui il giornalista Giovanni Mosca (1908
- 1983) raccolse le sue memorie d’insegnante elementare.
Collega di
Giovannino Guareschi al “Bertoldo” e al “Candido”, Mosca fu anche narratore,
disegnatore, umorista. Diresse il “Corrierino dei piccoli” (che i nostri nonni sicuramente
ricordano) e fu redattore al “Corriere della Sera”.
Nonostante
la sua vita movimentata e la sua interessante carriera, Mosca non scordò mai
gli anni in cui, giovane maestro, aveva insegnato nella stessa scuola
elementare in cui era stato scolaro.
Rileggiamo
insieme il racconto delle sue sensazioni…
Siete mai
tornati, da grandi, nella vostra antica scuola elementare?
Io sì, la
rividi, l’altr’anno, dopo tanto tempo, la scuola dov’ero stato prima alunno, e
poi insegnante: la bibliotechina, il salone, i maestri…
La
bibliotechina sempre la stessa, con gli stessi libri ricoperti di carta
canepina, e il titolo e l’autore scritti in bella callegrafia. […]
E rividi il
salone, il grande immenso salone, dove il giovedì, da scolaro, andavo cogli
altri a cantare “Fratelli d’Italia”. So come cantano i ragazzi: solo quelli
delle prime file cantano veramente; gli altri aprono semplicemente le bocche,
senza cantare, e se il maestro, sospettoso, li guarda, gli piantano in faccia,
senza turbarsi, due occhi buoni e leali che sembra dicano:
“Come! Non
credi ch’io canti? Non vedi che apro la bocca come tutti gli altri?”.
Ma com’era
divenuto piccolo, rivedendolo, il grande, immenso salone! E come brutti,
miseri, i meravigliosi dipinti del soffitto e delle pareti!
Come mai?
Forse perché
da bambini tutto sembra più grande, più bello; ma anche da maestro, fino a
pochi anni prima, il salone m’era ancora parso immenso, e i dipinti
meravigliosi, e il lume pendente dal soffitto più splendido di quello di un
teatro…
Come mai,
adesso che non ero più né scolaro né insegnante, tutte queste cose mi
sembravano, piccole, brutte, misere, e mi davano una stretta al cuore?
Oh, avrei
voluto dirlo ai maestri che mi vennero incontro, guardandomi con invidia, e:
«Ci hai
lasciati», mi dissero. «Una carriera brillante, la tua. Guadagni molto?».
Dilatavano
gli occhi al pensiero dei miei guadagni favolosi.
«Noi sempre
qui, tutti gli anni, tutti i giorni, sempre gli stessi ragazzi, anche se
cambiano le facce e i cognomi…»
Avrei
voluto dirlo ai maestri che m’invidiavano per la mia brillante carriera libera:
“Non li
lasciate, i ragazzi: finché si vive in mezzo ai ragazzi si è ancora un po’ come
loro, e le piccole stanze sembrano saloni, e quattro pupazzi sul muro sembrano
dipinti meravigliosi: e si crede, vivendo, con essi, a tante cose cui,
allontanandosene, non si crede più…”. […]
«Noi sempre
qui, tutti gli anni, tutti i giorni, sempre gli stessi ragazzi, anche se
cambiano le facce e i cognomi…».
Non
sapevano, non capivano, ch’ero tornato appunto per rivedere i ragazzi, per
rivederli entrare, la mattina, composti, lavati, pettinati, e uscire, a
mezzogiorno, neri d’inchiostro le mani e la faccia, il fiocco della cravatta
dietro la schiena, dandosi cartellate sulla testa; che ero tronato per rivedere
il corridoio, lunghissimo, con tante classi da una parte e dall’altra, e
passando, si sentiva la voce di una maestra di prima:
«I cavalli
hanno quindici gambe?»
«No», si
sentivano rispondere in coro gli scolaretti.
«Ne hanno
forse dodici?».
«Nemmeno».
E, calando
sempre il numero delle gambe, arrivava finalmente al numero vero.
«Ne hanno
quattro?».
«No!», rispondevano
con entusiasmo gli scolari.
E allora,
se avessi messo l’orecchio alla porta, avrei sentito il singhiozzo della
maestra, di quella povera maestrina di prima, che, fiduciosa del suo metodo, s’era
finalmente accorta di non essere riuscita ad altro che a generare una
spaventevole confusione nella mente dei suoi scolari nei riguardi del numero
delle gambe dei cavalli…