L'ultimo romanzo uscito dalla penna di Alessandro D'Avenia ha una sua originalità, e tocca temi importanti: non solo per gli adolescenti, ma anche per chiunque – a qualsiasi età – prenda sul serio le domande profonde del proprio cuore. Eppure, ho letto “L’appello” con una certa fatica.
L'idea di fondo è ottima: Omero Romeo, insegnante cieco, è chiamato come supplente in una classe all’ultimo anno delle superiori. Solo dieci studenti: tutti problematici, confinati in una classe-ghetto di casi umani. Il nuovo professore rompe subito tutti gli schemi, e inventa un nuovo modo per fare l’appello: dopo aver nominato un ragazzo ne esplora il volto con le dita, e lo invita a raccontare qualcosa di sé. Il professore cieco riesce a “vedere” i suoi ragazzi con una profondità che nessuno mai aveva fatto sperimentare loro.
Ottimo spunto, ripeto; tuttavia, ciò che mi ha reso faticosa la lettura è un certo eccesso di verbosità, un linguaggio ridondante e poco realistico, soprattutto quando a parlare sono i ragazzi. Diciottenni di grave problematicità e scarso rendimento scolastico, si esprimono come intellettuali di primo piano. E tutto questo toglie immediatezza alla narrazione.
In ogni caso, la riflessione sul ruolo dell'insegnante non è affatto banale. Permettetemi di offrirvi una pagina, che idealmente dedico a mio figlio, in cammino verso questa stessa scelta di vita...
Ricordo il momento in cui ho deciso che avrei fatto l'insegnante l'ho confidato ai miei amici. Ero felice, vedevo un futuro pieno di senso: continuare a studiare ciò che amavo e trasmettere quell’amore agli altri. Che cosa c'è di più grande? Eppure tutti mi dicevano parole che trasformavano il mio sogno in un’illusione: sarai un morto di fame, ai ragazzi non fregherà nulla, ripeterai sempre le stesse cose e ti troverai vecchio a 40 anni… Ma a me sembrava molto più reale il mio sogno che i loro discorsi basati sui soldi da accumulare e sul miraggio di certe carriere. Inoltre avevo l’esempio dei miei genitori: felici e realizzati nel fare i maestri di ciò che amavano. Così andai a parlare con loro. Mia madre mi disse che forse avevano ragione a sostenere che sarei stato un morto di fame, ma sbagliavano sulla parola “morto”. Sarei stato “vivo” dalla fame. Non capivo. E lei mi spiegò che da quando studiava e insegnava il greco e il latino non si era mai annoiata, si era sempre sentita aperta a una ricerca inesauribile. Quella fame la teneva viva e quella vita si trasmetteva agli altri. E questo è un grande sogno: non sopravvivere, ma essere vivi. Chi ha paura di morire cerca di resistere e si limita ad appropriarsi di energie già esistenti. Chi invece ha fame di vivere diventa un rivoluzionario, suo malgrado, perché crea nuove energie che prima non c'erano e le introduce nella vicenda umana dando slancio, forza, calore agli altri.
Nessun commento:
Posta un commento