Corre l’anno 1521. Uli il
Lungo, mercenario svizzero valoroso e intelligente, gioca un ruolo decisivo
nell’assedio di Pamplona: artigliere esperto, con un perfetto colpo di cannone crea
nelle mura una breccia decisiva, e ferisce gravemente un giovane ufficiale
basco, Iñigo de Loyola. Uli riceve l’ordine di ricondurlo alla sua nobile casa.
Con loro, travestita da
ragazzo, parte anche la giovane Juanita, rocambolescamente sottratta a un’aggressione
da parte della soldataglia.
Inizia così un’intensa,
stupenda storia “on the road”, che condurrà i nostri personaggi fino in Terra
Santa, e non solo.
Con Il filo d’oro. Il
racconto della vita di Ignazio di Loyola lo scrittore Louis de Wohl (1903 – 1961)
ci offre un altro romanzo storico imperdibile, in cui le vicende più avventurose
s’intrecciano con le domande più vere.
…Perciò la faccenda era
chiusa.
E la caraffa era vuota. E
anch’io, pensò. Non mi resta più niente.
Be’, almeno aveva
riconquistato la sua libertà. Non era più tenuto ad andare al castello di
Loyola, o in qualsiasi altro posto, nemmeno da André de Foix. Che senso avrebbe
avuto affannarsi a rintracciarlo, solo per dirgli che la sua bella cugina non
poteva fare niente per lui?
Era libero. Qualunque cosa
significasse.
In realtà Uli lo sapeva
benissimo cosa significava. Significava prestare giuramento di fedeltà a
qualche altro gran signore, o anche uno piccolo, portarne le stupide insegne e
combattere in nome suo l’ennesima, stupida guerra. Vedere altre terre
devastate, case incendiate, uomini massacrati, donne stuprate, bambini resi
orfani. […]
La sua libertà era una
catena.
E la cosa buffa era che
avrebbe dovuto essere contento. Era forte e sano, con un bel gruzzolo di ducati
d’oro in tasca e al dito un anello di rubino sufficiente a comprarsi una
piccola fattoria da qualche parte, se avesse voluto.
Sì, aveva ogni motivo di
sentirsi soddisfatto.
Dunque, per tutti i diavoli,
perché invece gli veniva da piangere?
E quell’uomo [Ignazio di
Loyola], era felice, lui? L’uomo che disprezzava i rubini e mendicava spiccioli
di rame.
Perché se lo era, la sua
felicità non era adatta ad Uli il Lungo.
Gli uomini sono diversi, e
ciascuno ha le sue aspirazioni.
Da piccolo, gli raccontavano
spesso la storia di un prozio, Nikolaus von der Flue […]
Da eremita
si faceva chiamare fratello Klaus, e durante le cene di famiglia i von del Flue
lo citavano talmente spesso come modello esemplare di vita cristiana che per
spirito di contraddizione Uli mangiava sempre una doppia porzione di tutto.
Magari era
vero che fratello Klaus era un medello di vita cristiana.
Forse per
diventare davvero buono un uomo doveva recidere ogni legame con il mondo, anche
se chissà cosa sarebbe diventato, il mondo, se tutti avessero seguito il suo esempio.
A quel
pensiero gli venne da ridere. Nel suo
caso non c’era proprio rischio che accadesse. Anzi, ora sarebbe sceso in
taverna a ordinare un’altra caraffa di vino di Xeres, o meglio ancora tre, e si
sarebbe sbronzato come si deve. Fece epr alzarsi, poi ricadde a sedere. No, era
un rimedio da sciocchi. Come mangiare una doppia porzione.
Fratello
Klaus era andato molto oltre. […]
Di sicuro, anche se Dio se
ne infischiava di lui, fratello Klaus non ne ricambiava l’indifferenza. E
magari, da vecchia volpe, lo aveva costretto a notarlo proprio con
quell’abnegazione totale. Gli si era letteralmente gettato tra le braccia.
Aveva dato l’assalto al cielo.
Era un’idea interessante. Si
poteva superare Dio in generosità?
Com’era quella vecchia
preghiera tramandata in famiglia?
Uli aggrottò la fronte.
Erano anni che non pensava a fratello Klaus. Chissà perché gli era tornato in
mente proprio adesso. Ma com’era quella preghiera? A casa la ripetevano di
continuo. Dicevano fosse il suo detto preferito. «Come diceva il prozio…»
Sedevano al tavolo
apparecchiato con i piatti e i boccali di latta, a mani giunte. Fuori nevicava.
E prima ancora della preghiera di ringraziamento, il padre di Uli recitava
quella del prozio: Signore e mio Dio, toglimi da me stesso e prendimi tutto per
Te».